Secondo un’importante sentenza di un tribunale keniota, Meta Platforms (META) – la società madre di Facebook, Instagram e WhatsApp, – è responsabile per il licenziamento di alcuni moderatori di contenuti, che l’avevano citata in giudizio insieme al suo partner africano Sama a inizio febbraio.

Secondo quanto riportato dai media locali, i 184 moderatori sono stati licenziati da Sama senza preavviso né indennità di licenziamento. A seguito del licenziamento, gli interessati hanno fatto causa a Meta, sostenendo che l’azienda era il loro vero datore di lavoro e che Sama era semplicemente un subappaltatore.

Il tribunale keniota si è quindi pronunciato a favore dei moderatori licenziati, ritenendo che Meta avesse un “controllo diretto” sul loro lavoro e stabilendo che il gigante tecnologico non abbia fornito un preavviso adeguato del loro licenziamento o dell’indennità di licenziamento.

Inoltre, in base alla sentenza di 142 pagine emessa dal giudice Byram Ongaya, Meta e Sama dovranno astenersi dal risolvere i contratti in questione mentre è in corso la causa che contesta la legittimità dei licenziamenti.

Il giudice ha inoltre emesso un’ordinanza provvisoria che recita:

Si emette un’ordinanza provvisoria che prevede la proroga di tutti i contratti che dovevano scadere prima della definizione della petizione, fino alla risoluzione del caso“.

La sentenza rappresenta quindi una vittoria significativa per i moderatori di contenuti, che devono spesso affrontare condizioni di lavoro difficili e stressanti, e un duro colpo per Meta, che ora dovrà fare i conti con le conseguenze legali di questa decisione.

Meta found liable as court blocks firing of moderators https://t.co/DjlivHjJ4g

— TechCrunch (@TechCrunch) June 3, 2023

Inoltre, il giudice Ongaya ha vietato a Majorel, la società di outsourcing con sede a Lussemburgo recentemente ingaggiata da Facebook, di inserire i moderatori di contenuti in una blacklist che impedisce loro di ricandidarsi per posizioni simili.

La sentenza ha inoltre imposto a Meta di garantire un adeguato supporto medico, psichiatrico e psicologico ai firmatari e agli altri moderatori di contenuti.

Mercy Mutemi, l’avvocato che rappresenta i querelanti, ha dichiarato:

È stato fondamentale che il tribunale abbia stabilito che Facebook è il vero datore di lavoro dei suoi moderatori. Sono molto soddisfatti dell’ordinanza. Questa sentenza è importante non solo per i firmatari, ma per l’intero settore dei social media e dell’AI“.

La denuncia dei moderatori di contenuti

Meta è stata messa sotto osservazione a causa di accuse riguardanti le condizioni di lavoro dei moderatori di contenuti, che sostengono di essere esposti a materiali inquietanti e carichi di odio per lunghi periodi di tempo, senza un’adeguata tutela del loro benessere.

L’azienda è attualmente coinvolta in altre due cause legali in Kenya: una, come riportato dal Financial Times, è stata intentata da un ex dipendente di Sama, il sudafricano Daniel Motaung, che ha denunciato le cattive condizioni di lavoro e la mancanza di supporto per la sua salute mentale; mentre un’altra è stata presentata da una ONG (organizzazione non governativa) locale e da due cittadini etiopi.

Questi ultimi accusano l’azienda di non aver preso provvedimenti contro alcuni discorsi d’odio online in Africa, che secondo loro avrebbero portato all’omicidio di un professore universitario etiope. I denuncianti chiedono l’istituzione di un fondo di 1,6 miliardi di dollari per risarcire le vittime.

La moderazione dei contenuti è un lavoro vitale ma spesso ingrato. I moderatori hanno il compito di esaminare i contenuti generati dagli utenti per verificare che non siano dannosi o illegali, come nel caso dei discorsi d’odio, dell’istigazione alla violenza e del materiale pedopornografico.

Questo lavoro può essere emotivamente e psicologicamente impegnativo, e i moderatori di contenuti sono spesso pagati una miseria e hanno pochi benefit.

Il Financial Times ha riportato che, secondo Glassdoor, il reddito annuo tipico di un moderatore nel Regno Unito è di circa 25.000 sterline. Tuttavia, quelli assunti da terzi ricevono spesso salari vicini all’importo minimo e sono spesso assegnatari dei contenuti più inquietanti. Per svolgere questi compiti, i social network come Facebook, TikTok e YouTube assumono collaboratori esterni.

Inoltre, negli ultimi anni sono stati segnalati numerosi casi di abusi nei loro confronti da parte dei datori di lavoro, come insulti verbali, minacce e persino violenze fisiche. In altri casi, ai moderatori sono state negate pause adeguate, retribuzioni per gli straordinari e altri benefici.

La sentenza del tribunale keniota ricorda che i moderatori sono dipendenti a tutti gli effetti e pertanto meritano gli stessi diritti e le stesse tutele di qualsiasi altro impiegato. La sentenza è anche un monito per le aziende tecnologiche, che non possono semplicemente esternalizzare la loro responsabilità per il benessere dei dipendenti.

Cosa significa questo per Meta?

La sentenza del tribunale keniota rappresenta una significativa battuta d’arresto per Meta. L’azienda dovrà ora reintegrare i 184 moderatori e pagare loro gli stipendi arretrati, oltre a modificare le proprie politiche di moderazione dei contenuti per garantire un trattamento equo ai propri collaboratori.

La sentenza potrebbe avere implicazioni anche per i partner esterni di Meta, che potrebbe ora essere più riluttante a esternalizzare il lavoro di moderazione dei contenuti a società terze.

Ciò potrebbe portare all’assunzione diretta di un maggior numero di moderatori di contenuti, migliorando così le condizioni di lavoro di questi dipendenti.

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